La relazione1 cercherà di approfondire il tema dal punto di vista pedagogico generale, lasciando altri aspetti ad altri interventi e comunicazioni2 . Si baderà in particolare alle novità che – come si usa dire – “sfidano” il ruolo e la funzione docente dell’insegnante di scuola cattolica, come pure alle richieste di competenze che sono loro richieste in quanto insegnanti e specificamente in quanto insegnanti di scuola cattolica.


[…]

  1. Un quadro delle competenze della funzione docente

Il già citato decreto legislativo 227/2005 dichiara che “la formazione iniziale e permanente dei docenti della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e di quella secondaria di primo e di secondo grado, è finalizzata a valorizzare l’attitudine all’insegnamento e la professionalità docente, che si esplica nella competenza disciplinare e didattica, nella capacità di relazionarsi con tutte le componenti dell’istituzione scolastica e nel rispetto dei principi deontologici” (art. 1, c. 2). E subito dopo afferma che “la formazione sostiene e qualifica la funzione docente nei suoi essenziali aspetti cognitivi e pedagogici, di autonomia professionale e di libertà di insegnamento, indirizzandola verso il conseguimento di obiettivi formativi da sottoporre a verifiche e valutazioni oggettive con riguardo sia alla progressione del rendimento che agli esiti finali” (art. 1, c. 3).
Volendo essere al contempo più sistematici e analitici, mi pare – sulla base del fin qui detto – che si possa arrivare a delineare un quadro abbastanza esaustivo delle competenze necessarie per la buona esplicazione della funzione docente in genere e di quella operante in una scuola cattolica in particolare.

  1. Competenze sui contenuti disciplinari e i suoi diretti riferimenti culturali e scientifici. Peraltro tale tipo di competenza è supportata dalla competenza culturale generale di base, che è propria di chi ha espletato un regolare corso di secondaria superiore e ne ha ricavato un minimale stile di educazione permanente e di gusto per l’ag­giornamento della cultura personale nei campi emergenti della tradizione e delle avanguardie della cultura contemporanea (da quella umanistico-letteraria a quella scientifico-tecnologica, a quella mass-mediale informatica). Tutto ciò è importante per far interagire quanto attiene la disciplina o le discipline insegnate con l’insieme della cultura scolastica e con la cultura sociale; e in particolare con la cultura che è alla base della socializzazione comune degli studenti. Ai fini di solide competenze a questo livello, sarà appena da notare l’impor­tanza di un personale stile di apprendimento, per cui si è capaci di trarre profitto e si è capaci di elaborare in modo riflesso e critico l’esperienza personale e co­munitaria.
  1. Competenze sui problemi didattici, soprattutto per consentire all’insegnante di essere un abile mediatore tra vissuti degli studenti e le proposte culturali disciplinari e traversali (informazioni, notizie, conoscenze, atteggiamenti, modelli di comportamento), nel processo di decodificazione e ricodificazione culturale che il processo dell’apprendimento scolastico innesca. In tal modo la funzione docente, specie attraverso congrue unità di apprendimento, permetterà all’insegnante (o al team insegnante) di essere buoni comunicatori, fa­cilitatori e guide, esperte e valide, nella formazione culturale degli alunni.

Si coglie, qui, l’importanza dell’apporto formativo delle scienze dell’educazione e di un opportuno tirocinio “tutorato” che avvii all’insegnamento (e magari lo supervisioni sistematicamente negli anni successivi). In ogni caso si comprende subito l’importanza dell’essere capaci di saper riflettere su quanto si fa e di saper approfittare del “sapere frutto di esperienza”. Essere “riflessivi nell’azione”, personalmente e magari anche in gruppo (come cercano di fare le cosiddette “comunità di pratica dell’apprendimento”) è ormai una mèta indiscutibile anche della “professione docente”.

  1. Queste competenze di tipo culturale e didattico si nutrono di conoscenze di tipo psico-pedagogico, relative cioè ai pro­cessi evolutivi in generale e ai processi di socializzazione e dell’apprendimento secondo le diverse fasi dell’età scolare; la conoscenza dei loro condizionamenti e delle loro eventuali distorsioni, così come la capacità di accorgersi quando sia necessario riferirsi ad altre competenze in vista di eventuali interventi di ricupe­ro o di ricomposizione terapeutica (con particolare riguardo a disturbi non solo di apprendimento, ma anche di personalità o di relazionalità). Più globalmente chiedono di essere sostenute da conoscenze pedagogiche generali, riguardanti la natura, le finalità e le tendenze dell’educazione scolastica oggi; e in particolare riguardanti la natura, i compiti e i fini della scuola in rapporto con le diverse agenzie educative e con il mondo extra-scolastico, nel gioco sistemico delle diverse agenzie formative e delle dinamiche educative formali, non formali e informali.
  1. Ma si richiedono anche competenze metodologiche di tipo generale, comuni a tutte le discipline, ed in particolare la competenza di gestione di processi di apprendimento (progettazione, attuazione, valutazione), come è voluto dal Dpr 275/1999 sull’autonomia delle istituzioni scolastiche; di gestione di classi/gruppi di apprendimento; di saper lavorare in équipe e istituzionalmente (cioè rispetto al Pei e al Pof della scuola); come pure di saper stimolare e attivare strategie di studio, di ricerca, di lavoro di gruppo, trasferibili facilmente dal campo dell’ap­prendimento a quello della condotta civile e democratica (come si è invitati a fare attraverso l’insieme delle educazioni affluenti nell’educazione alla convivenza civile e attraverso le pratiche dei laboratori espressivi e dei laboratori di recupero e di sviluppo dell’apprendimento).
  1. La storia recente e tra­scorsa della scuola insegna quanta parte dell’autorevolezza della docenza e con­nessa con la capacità di buone relazioni. Tali competenze di tipo relazionale sono spendi­bili sia nei rapporti dei docenti con gli alunni, sia nei rapporti con colle­ghi docenti, sia nei rapporti con il personale amministrativo non docente o diri­gente; sia infine nei rapporti con i genitori degli alunni. Tale competenza relazionale non è solo frutto di buon carattere; è pure il risultato di un impegno formativo nei confronti della propria personali­tà che si nutre, tra l’altro, anche di scienza e di tecniche psicologico-sociali opportune.
  1. In questo orizzonte di senso si intravede, abbastanza chiaramente, la necessità di fare anche opera di coscientizzazione a riguardo di quella che potremmo dire la filosofia dell’e­ducazione e la teoria della scuola di cui ogni insegnante è almeno implicitamente portatore, come singolo o come gruppo.

In particolare, questa cura della mentalità chiede eventualmente di aggiornare le idee pedagogiche, i modi di intendere l’istruzione, la formazione, l’educazione, il ruolo della scuola tra le attività formative in rapporto allo sviluppo e alla buona qualità della vita personale e comunitaria contemporanea. La scuola non è solo questione di autonomia, di cicli, di saperi o di competenze: è anche questione di presa di coscienza del progetto di scuola, di persona, di società, di cultura formativa (di paidèia) che più o meno implicitamente si ha e si vuol perseguire, da soli o insieme ad altri, nella scuola in genere e in quella cattolica in particolare.

  1. Ma la docenza si impara anche praticandola e aggiornandola. In tal senso nel profilo del docente c’è inderogabilmente l’essere sensibili e l’essere attivamente promotori dell’aggiornamento della propria attività docente, come pure il curare lo sviluppo qualitativo del proprio e comune ruolo di insegnante.

Si comprende in questo contesto, l’aiuto che potrebbe venire dall’appartenenza a una o più associazioni professionali di categoria e alla frequentazioni di riviste e banche dati e biblioteche a questo scopo; ma anche la partecipazione attiva a gruppi o progetti di ricerca, specie del tipo della ricerca-azione. La riforma prevede ritorni alla formazione di tipo universitario.

  1. La pratica docente spinge a stare, ma anche a non limitarsi, al puro ambito delle saper fare. Oggi, più che in passato, induce tutti – come si è accennato – a fare entrare nell’orizzonte delle competenze da acquisire e aggiornare continuamente anche la cura di ciò che è sorgivo e integrativo nella professione docente. Le novità e il pluralismo di questo inizio secolo, che sembrano scompaginare nel profondo la stessa identità personale e il senso della continuità esistenziale, individuale e collettiva, invitano tutti a curare il buon rapporto tra ruoli, funzioni e vita personale. Anzi, la vastità delle dinamiche innescate dai processi della condizione vitale contemporanea, spinge a coscientizzare, per un verso, ciò che è “sorgivo” o “fontale”, e, cioè, originario nell’essere e nell’operare educativo, istruttivo e formativo (la cosiddetta vocation personale, le tendenzialità e le propensioni soggettive, i “talenti” e il temperamento personale); e, per altro verso, spingono a dare un centro di unificazione alla stessa personale vita professionale collegando e integrando identità e funzioni, essere e agire, testimonianza e professionalità, capacità e “talenti” personali e competenza professionale, stili d’apprendimento e modelli comportamentali relazionali e pedagogico-didattici.
  1. La formazione e la cura per una solida capacità culturale cristia­namente ispirata

La specificità della docenza in scuole cattoliche è riconosciuta dalla legge 62/2000 art. 3 (altrettanto vale analogamente per centri di formazione cristianamente ispirati).
Nell’attuale situazione di pluralismo e di innovazione socio-culturale, di multi-cultura e in particolare di multi-religiosità, la scuola cattolica (e analogamente la formazione profes­sionale cristianamente ispirata) è chiamata a fare scelte non solo politiche, ma anche culturali, pedagogiche e didattiche.
Proprio perché la cultura formativa attuale non è scontata, è obbligo per tutti ripensarla, ridefinirla, riprospettarla peda­gogicamente. Una rivisitazione delle discipline e dello stesso spirito scientifico che le pervade si rende necessaria. Ne va della ca­ratterizzazione di scuola e formazione professionale cattolica (ne va, cioè, dello specifico di tali istituzioni formative rispetto ad altre forme di scuola e di formazione professionale del sistema formativo pubblico).
Essa comporta, per un verso, la capacità di condivisione di quelli che sono detti comunemente i “valori condivisi” (presenti nella Dichiarazione dei diritti umani, nella Dichiarazione dei diritti dei minori, in quella che Maritain chiamava la “Carta democratica” e nella Costituzione) e, per altro verso, invita ad avere la capacità di legittimamente “differenziarsi” nella giustificazione di essi. Cristianamente, ciò si attua normalmente secondo una dinamica di incarnazione-critica-profezia, facendo riferimento a quello che comunemente si denomina il depositum fidei e secondo la coscienza ecclesiale maturata soprattutto a seguito della grande esperienza ecclesial-epocale del Concilio Vaticano II. Spesso può comportare una vasta e incisiva critica culturale ai modi di vita e alla cultura che magari vanno per la maggiore (e che magari in vario modo si compartecipano), perché se ne fa esperienza nel vivo della pratica dell’insegnamento e della effettuazione concreta della proposta educativa espressa nei Pei e nel Pof delle scuole cattoliche e dei Centri di formazione professionale di ispirazione cattolica. Peraltro, Pei e Pof, esprimono, per lo più, in forma rinnovata, le tradizioni educative carismatiche dei santi fondatori e fondatrici che sono all’origine delle attuali istituzioni educative, istruttive e formative; o, comunque, sono la trasposizione alla scuola e alla formazione professionale di movimenti di impegno ecclesiali recenti.
Ma non si tratta solo di “rivisitazione culturale”. Si tratta anche di qualcosa che attiene sia il modo di intendere che il modo di praticare la funzione e la professionalità docente nella scuola (e nei centri di formazione professionale di ispirazione cristiana). In tal senso, per chi svolge o svolgerà la sua funzione docente in una scuola cattolica, non può essere messa tra parentesi una formazione e la cura per una solida capacità culturale cristia­namente ispirata.
Ciò avveniva quasi per “connaturalità” in passato, tramite la formazione religiosa o presbiterale che, più o meno specificamente, abilitava i religiosi e le religiose o i preti operanti nella scuola cattolica ad essere “competenti” per pratiche educative, istruttive e formative cristianamente ispirate. Oggi, con una popolazione docente in gran parte (o massima parte) formata da insegnanti laici e laiche, ciò non è più scontato (e forse non lo era del tutto neanche in passato, perché alla cultura generale cristianamente ispirata non sempre corrispondevano competenze didattiche e comportamenti scolastici adeguati ad essa).
In tal senso, per chiunque opera nelle istituzioni formative di ispirazione cristiana si impone una benché minima, ma pure abbastanza solida, formazione cultural-teologica che orienti e motivi l’agire educativo, istruttivo, formativo, perché – come si è detto – l’ispirazione cristiana di fatto agisce (e di diritto è chiamata in causa) ai vari livelli delle pratiche educative, istruttive e formative della scuola cattolica (e dei centri di formazione professionale di ispirazione cristiana). Cercherò di mostrare come e a che livello.

  1. Nella “migliore” e secolare tradizione educativa cristiana (recensibile accanto e oltre pratiche spesso non proprio nel segno della promozione umana) sono sempre emerse nella pratica educativa, istruttiva e formativa alcuni tratti caratterizzanti che si vogliono discendenti da una “ispirazione cristiana”:
  • il concetto di azione educativa vista non solo come “educare”, cioè nutrire culturalmente l’alunno con la trasmissione della migliore “paideia”sociale (nella fattispecie riletta cristianamente), ma anche e essenzialmente come educere, come “risveglio” e “maieutica” della persona: sulla base di una con­cezione antropologico-cristiana dell’educando, soggetto che non è da idola­trare, ma neanche semplicemente da plasmare, perché è vita creata e redenta da promuovere, persona da suscitare e da sostenere nel suo processo di crescita e di qualificazione personale dell’esistenza propria, altrui e comune;
  • l’idea della scuola (o del centro di formazione) intesi come comunità educativa sorretta idealmente da un progetto educativo, supportata da un ambiente educativamente accurato, vissuta in clima di “famiglia”, praticata in collaborazione stretta con le famiglie e la comunità territoriale e ecclesiale (e magari con le rispettive forme associative), fervida di iniziative di volontariato e di impegno civile e ecclesiale;
  • la concezione del rapporto e della relazione personale come strategia “prima” dell’educare (con la tradizione di fidu­cia, di stima, di rispetto, di dialogo, di incontro, di proposta che essa comporta; e pur nella saggia attenzione alle tecnologie educative che l’innovazione scientifico-tecnologica offre);
  • la considerazione che l’istruzione è un illuminazione della mente per irrobustire il “cuore” e che l’educazione scolastica è, sì, stimolazione e formazione intellettuale, ma anche (e forse soprattutto) “affare di cuore”, di “buon esempio”, di ragionevolezza, di bontà, di “amorevolezza” e di giustizia;
  • l’esigenza di una cultura ispirata ad un “umanesimo inte­grale” sia come forma che come contenuto dell’educare (nella prospettiva della “civiltà dell’amore”, affermata, in tempi recenti, da Paolo VI).

 Gli insegnanti di oggi sono chiamati a continuare e rinnovare tale fonte ispirativa della tradizione e in tal senso ne debbono essere messi formativamente a parte.

  1. Questi stili di pratica scolastica trovano il loro riferimento in una concezione cristiana del mondo e della vita. In tal senso anche gli stessi concetti di persona, personalizzazione, educazione, istruzione e formazione, assumono un significato diverso da altre concezioni, che pure dicono di fare della persona il centro cardine della azione educativa, e che si rifanno a punti di vista filosofici di varia natura, da quelli di matrice kantiana a quella problematicistica o pragmaticistica o quant’altro, oppure a visioni socio-politiche che assumono a loro quadro di riferimento le dichiarazioni dei diritti umani o quelle dei minori.

Invero, questa Weltanschauung cristiana, che dovrebbe ispirare gli insegnanti di scuola cattolica (e i formatori dei centri di formazione professionale di ispirazione cristiana) spesso è qualitativamente molto povera, affidata com’è quasi solo alla loro socializzazione familiare o alla catechesi della loro prima iniziazione cristiana, al massimo ripensata nel confronto di quanto viene dalla cultura letteraria della scolarizzazione primaria e secondaria o dal quotidiano dibattito sociale, spesso innescato dai mass media e dai new-media.
La povertà di questa assimilazione culturale porta molte volte a ridurre l’ispirazione cristiana ad una schematica e rigida “ideologia”, di cui magari ci si fa scudo senza troppo saperla motivare e giustificare nella pratica scolastica e formativa; oppure, sia a scuola sia nel dibattito sociale rischia di diventare solo un puro appellarsi ad una autoritaria e dogmatica dottrina della Chiesa, senza riferimenti e assunzione critica e personalizzata.
In tal senso è la qualità della pratica scolastica che chiede una buona formazione a riguardo. Infatti questa “competenza” permette di capire e rendere concreto lo “specifico” della scuola cattolica, in quanto – come si afferma nel documento La scuola cattolica del 1977 – essa risulta “centrata” sul mistero di Gesù Cristo; sul mistero cristiano dell’incarnazione (per cui Gesù è pro­feta, ma anche più che un profeta); sulla rivelazione dell’amore mi­sericordioso di Dio (di cui Cristo è il “volto” che si vede e si ascolta); sul rinnovamento umano nello Spirito (per cui si compie la santificazione del mondo e in cui ci è dato di chiamare padre Dio e dire Signore Gesù, ed in lui essere “figli nel Figlio”).
Ciò dà modo alla pratica educativa della scuola cattolica di mettere in luce:

  • la centralità (non solo religiosa ed etica, ma anche cul­turale e pedagogica) del “vangelo della vita”, del mistero della creazione, della alleanza e della figliolanza tra ogni umanità e Dio, della presenza vivificante dello Spirito nella vicenda storica di ogni tempo;
  • la riconciliazione dei linguaggi (passando da Babele alla Pentecoste cristiana), e quindi la possibilità di dialogare, co­municare, far comunità e comunione, oltre ogni alterità, separatezza, solitu­dine, emarginazione, differenza religiosa (e in tal senso portare fino alle ultime conseguenze il dialogo tra ragione e fede a livello delle stesse quotidiane pratiche di apprendimento e di insegnamento);
  • la riconciliazione tra umano e divino, tra tempo ed eter­nità, per cui per essere “grande” di fronte a Dio non c’è più bi­sogno di essere maschio, adulto, sano, ricco, bianco, civilizza­to, appartenente al popolo eletto; ma si è amati fin dal seno ma­terno, si è primi pur essendo ultimi, non c’è più schiavo o libe­ro, uomo o donna, giudeo o greco, perché tutti ci siamo abbevera­ti allo stesso Spirito; e proprio per questo si è tutti capaci di positivo apporto alla costruzione del corpo sociale (per cui non ci sono più cit­tadini di serie A e di serie B, ma tutti “concittadini” attiva­mente capaci di edificare un’umanità all’altezza del Cristo ri­sorto, come insinua san Paolo nella Lettera agli Efesini, cap. 4, vv. 1-13).
  • la profezia del “di più di Dio”, rispetto a pensieri troppo umani, sia riguardo ai modi di parlare e immaginare Dio stesso (“i miei pensieri distano dai vostri pensieri come il cie­lo dista dalla terra”), ma sia anche riguardo alla fedeltà e alla giu­stizia di Dio, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, che fa splendere il sole sui buoni e sui cattivi, che non spegne il lucignolo fumigante, non spezza la canna incrinata, che non vuole la morte del pec­catore ma vuole che si converta e viva, che va incontro al figlio prodigo e ricerca la pecorella smarrita…

In questo orizzonte si intravede la possibilità di una cul­tura e di una formazione che permette di aprire le porte alle speranze umane, perché si fa balenare la possibilità del senso di ogni impegno per quei cieli nuovi e terra nuova in cui risplenda definitivamente giustizia e verità; e si assicura la possibilità della piena comunione con il Dio-comunione “nell’ultimo giorno”.
Ovviamente si tratta di intuizioni espresse in un linguaggio religioso ed in tal senso vanno ridette nei termini (e nei limi­ti) delle nostre attuali codificazioni culturali e dell’istruzio­ne scolastica. È appena da notare che ciò richiede di:

  • vedere persone, eventi e cose con l’ “occhio buono del Vangelo” e della carità (1 Cor, cap. 13);
  • saper discernere i “segni dei tempi” (GS, 11);
  • saper pensare secondo logiche e dinamiche di segno, mistero, segno; di personalizzazione e co­munanza; di libertà e di regola, di senso gerarchico delle verità e delle motivazioni;
  • saper coniugare ricerca e pratica, intelligenza ed invoca­zione;
  • saper coniugare affermazione e senso del limite di quanto si è affermato (e quindi ricercando dialogo, confronto, apertura all’ul­teriorità, pur nella convinta affermazione della propria specifica e “differente” verità).

Ma ad essere precisi tale visione del mondo e della vita arriva a delineare una “specifica” visione del ragazzo/studente: egli appare al contempo persona (come possono affermare anche molte prospettive pedagogiche umanistiche contemporanee), immagine e somiglianza di Dio (come possono affermare anche pedagogisti di matrice ebraica o musulmana o d’altra matrice religiosa), ma, solo cristianamente, anche “figlio nel Figlio” e modello di quei “piccoli” che cercano evangelicamente il Regno di Dio e la sua verità-giustizia.
Sarà tale Weltanschauung cristiana che avrà da sostenere e stimolare la mentalità docente dell’insegnante/formatore di scuola cattolica o di centro di formazione professionale di ispirazione cristiana.

  1. Si intravede qui un terzo livello dell’ispirazione cristiana, quello che non la riduce a sola referenza e a solo quadro di riferimento ideale e valoriale, ma che la porta a livello di motivazione e ispirazione creativa di vissuti, di modo di vivere e realizzare la vita in genere ed in particolare il diritto di tutti all’apprendimento. Essa permette di attuare il compito educativo non solo come realizzazione dei fini istituzionali dell’insegnamento (sviluppare le capacità fondamentali dell’apprendimento sia contenutisticamente che metodologicamente; aiutare, attraverso la promozione della formazione culturale, lo sviluppo della personalità; porre le basi per le capacità di lavoro professionale; sostenere e far fare pratica di convivenza civile); e non solo come agire di spessore civile; ma spingere a viverlo e praticarlo anche come “missione educativa credente”, cioè come azione che continua e realizza a vantaggio degli studenti la volontà di vita e di salvezza di Dio creatore, del Cristo redentore e dello Spirito santificatore, in comunione con tutta la Chiesa e la sua opera comunitaria di edificazione della storia come “già e non ancora” realizzazione del Regno di Dio.

Per tal motivo lo stesso agire e relazionarsi educativo viene a risultare non solo come agire e relazione professionale, magari intrinsecamente connotata di dimensioni affettive, filantropiche, sociali, ma anche come un modo specifico di relazionarsi e di vivere “agapicamente” (cioè secondo l’amore di Dio) la comune vicenda umana di liberazione e pienezza vitale a cui tutti aspiriamo (come ha evidenziato la recente enciclica papale Deus caritas est), nella linea del caritas Christi urget nos (II Cor. 5,14), declinata pedagogicamente e educativamente.
Parimenti, la pratica educativa diventa una forma di sequela Christi. La vita scolastica può essere vissuta come compito e momento dell’essere Chiesa. La funzione docente può essere praticata non solo come “servizio” educativo civile, ma come “servizio” evangelico. L’autorevolezza educativa può rivestire non solo le forme della buona relazione promozionale intergenerazionale, ma anche quelle del “farsi servo evangelico” per la promozione di chi è “piccolo” e bisognoso. La formazione culturale è stimolata a rivestire la scienza e la competenza anche con le forme della sapienza e della saggezza, che coniugano costantemente e creativamente esperienza e cultura, disciplina e vita, ratio et fides, esperienza civile e trascendenza religiosa. E la stessa educazione assurge a forme di evangelizzazione (o perlomeno di pre-evangelizzazione), coniugando valori umani e civili con la novità evangelica.

  1. Ma nell’ispirazione cristiana c’è anche la pretesa di insinuare alla coscienza dell’insegnante e del formatore, operanti nella scuola cattolica o nei centri di formazione professionale, di poter far conto su una serie di risorse educative che vanno oltre le energie e le spinte motivazioni puramente soggettive, come pure oltre le competenze (generali, specifiche, specialistiche…) acquisite formativamente. Gli stessi “talenti” personali vengono ad essere vissuti come “dono” di Dio, espressione di quella “grazia” divina creativa e concomitante la vita che il credente cristiano riconosce nella convinzione della “priorità” dell’azione amorosa e benigna di Dio Padre. Più in concreto il credente sa che nel momento dell’agire, oltre che alle sue conoscenze e alle sue abilità didattiche o al suo tatto educativo, può riferirsi anche alla illuminazione e al conforto dello Spirito. Sa che la sua partecipazione ai misteri della vita cristiana (sacramenti, liturgia, eucaristia, celebrazioni di mediazione e preghiera comunitaria), possono diventare culmen et fons anche della sua vita professionale e della sua pratica educativa scolastica e formativa. Sa che la preghiera (e in particolare la preghiera per i giovani, con i giovani e dei giovani) può sostenere il realizzarsi in profondo di quella consonanza spirituale e di quella seppure sempre parziale “fusione di orizzonti” che favoriscono e stimolano il vivo apprendere scolastico e formativo. Sa che l’appartenenza ecclesiale e il sentirsi Chiesa a scuola o nella formazione professionale non solo dà impulso alla sua funzione docente, ma sa che può essere anche fonte di conforto e di sostengo ad operare in contesti non sempre facili e disponibili ad una educazione solida e sensata. Sa che la stessa buona coscienza del lavoro ben fatto può dare il senso del “buon frutto” della “carità fatta” ed essere sorgente di quella gioia particolare che viene dal Vangelo realizzato. E sa che la buona vita cristiana, discretamente ma intensamente e profondamente vissuta, diventa essa stessa “risorsa educativa” stimolativa di validi e fruttuosi processi di apprendimento scolastico e formativo.

[…]


1 La relazione è tratta da: C. Nanni, Ruolo, funzioni e competenze del docente di scuola cattolica, in G. Malizia – S. Cicatelli – C. Fedeli (a cura di), Atti del seminario. Il contributo delle università alla formazione degli insegnanti di scuola cattolica. Roma, 3 febbraio, 2006, Roma, Centro Studi per la Scuola Cattolica, 2006, pp. 36-53.
2 Mi rifarò e svilupperò quanto ho già detto separatamente in altre occasioni, come ad esempio: C. Nanni, Introduzione alla tavola rotonda:”Formazione iniziale del docente di scuola cattolica nel quadro della riforma in atto”, in G. Malizia – S. Cicatelli, Atti dei seminari “Nuovi percorsi formativi per docenti della scuola cattolica” e “Prospettive per il secondo ciclo. Riflessioni e proposte sul decreto attuativo” (Roma 30-09-2004 / 9-2-2005), CSSC, Roma 2005, pp. 23-32 e C. Nanni, Introduzione alla tavola rotonda:”Ispirazione cristiana ed elaborazione dei piani di studio personalizzati, in Atti dei seminari”Profilo dello studente” e “Piani di studio personalizzati”, (Roma, 2-10-2003 / 12-5- 2004), CSSC, Roma, pp. 177- 181. Più generalmente rimando alla bibliografia finale di riferimento.